Archivio di Aprile 2024

11 – Genova

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Alfred de Musset, Ritratto di George Sand, 1833
Josef Kriehuher,
Lorenzo Salvi, 1839
Olof Johan Sodermark,
Marie-Henri Beyle, detto Stendhal, 1840
Anonimo,
Gian Carlo di Negro, s.d.
Nicolas-Mari-Joseph Chapuy,
Panorama di Genova dalla Loggia di levante del Palazzo del Principe, 1828-1848

«Quello che ho visto di più italiano in Italia è Genova»

Stendhal, Mèmoires d’un Touriste, Parigi, 1839

Cosa l’aveva colpito a Genova per apparirgli la più italiana delle città visitate fino a quel momento (Milano, Como, Verona Padova, Venezia)? Ciò che emerge dalla descrizione della città è un’idea di luminosità derivante da diversi fattori: entrando a Genova, scrive Liszt, si rimane «abbagliati» dal prestigio sempre vivo della sua passata grandezza […] le sale sono «risplendenti di dorature» […] «sotto questo cielo sempre sereno» […] «questo eterno sorriso della natura»; a sera «è la volta delle luminarie, dei fuochi d’artificio, dei pali trasparenti» e «migliaia di lucciole […] tracciano i loro fantastici e scintillanti arabeschi». Espressioni simili compaiono nelle descrizioni del lago di Como e a Bellagio; dunque ciò che lo colpisce a Genova è una luminosità riflessa dall’acqua, forse vista come carattere tipico della penisola, tutta protesa sul mare. Dunque Genova sarebbe la città più italiana, perché la più luminosa della luminosa Italia! Ma leggendo quella prima frase la memoria va anche alla storia di Genova, una storia repubblicana, per secoli autonoma, mai papalina, mai totalmente sottomessa nonostante gli assedi e le temporali invasioni di francesi, di austriaci e perfino di inglesi. Genova italiana, prima ancora che esistesse l’Italia come entità politica. I nostri due pellegrini sostano spesso al Caffé della Concordia, frequentato da francesi esiliati per i moti rivoluzionari del ‘30 e da italiani avversi al regime asburgico.


Charles Landelle (1821–1908), Ritratto di Alfred de Musset. Olio su tela, 1874, copia di un dipinto del 1854

Questo caffè era stato tappa prediletta di George Sand nel suo viaggio in Italia con De Musset. Per ciò che riguarda la musica la visita si colloca nella «cattiva stagione», in quanto durante l’estate i teatri hanno un’attività molto ridotta. Però, per la vigilia di San Giovanni, il 24 giugno, l’alta società si ritrova a teatro, dove in quell’anno poté assistere ad una recita di Lucia di Lammermoor. Franz – ci racconta Marie – s’appassiona per la voce e l’interpretazione scenica del tenore Lorenzo Salvi allora nel pieno splendore delle sue qualità artistiche. Nelle pause del soddisfacente spettacolo, i nostri turisti, incontrano due amici: Teresa Visconti d’Aragona sorellastra della principessa Cristina di Belgiojoso e suo marito Charles François Armand. Non sembra un incontro casuale ma un altro indizio che fa pensare ad un risvolto politico del soggiorno di Liszt a Genova.

Anonimo, Charles-François-Armand de Bancalis de Maurel d’Aragon, litografia, 1845 ca. Marito di Teresa Visconti d’Aragona, sorellastra della principessa Cristina di Belgiojoso, fu uno degli incontri genovesi di Liszt

Altra “coincidenza” abbastanza strana è la meta scelta da Liszt dopo Genova: Lugano, città italiana oltre i confini, altra città bagnata dalle acque, dove il referente fu Giovanni Grillenzoni, nobile modenese rifugiatosi in Svizzera essendo stata scoperta la sua partecipazione alla cospirazione carbonara, con conseguente condanna a morte in contumacia. Per quale motivo i due amanti decidono di visitare Genova e vi si fermano per circa un mese? Liszt nel suo scritto racconta che aveva una lettera di raccomandazione per il «dilettante appassionato» marchese Di Negro, che egli descrive in modo divertente come prototipo del «dilettante di professione, il Mecenate delle semicrome, il filarmonista senza pietà […] la mosca infaticabile del cocchio o del carro di Apollo», eppure si presenta a casa sua appena due giorni prima della partenza. Anche Stendhal aveva citato la Villetta Di Negro per la bellezza del suo giardino e per la cordiale ospitalità del padrone di casa nelle sue Mémoire d’un touriste, pubblicate in quello stesso 1838 in cui Liszt visitò la città. Nel suo diario Marie riferisce che il 10 luglio Liszt ha suonato a Palazzo Mari di fronte ad una «società elegante» e aggiunge «Attenzione religiosa. Stupore» e precisa il programma: prima de L’Orgia, trascrizione da Rossini, e prima delle variazioni su brani di Thalberg, Chopin e Herz, come brano di apertura Liszt suona la sua fantasia da I puritani di Bellini, ossia la sua “carta da visita” patriottica «Suoni la tromba e intrepido». Si può immaginare che a quelle note vibrassero i cuori di alcuni dei presenti, un gruppo di nobili impegnati nella lotta per la libertà della regione da qualsiasi dominio straniero, e forse anche quello della stessa giovane Mlle Pallavicini, di cui Marie descrive il rapimento commosso nell’udire la musica di Liszt.

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12 – Il concerto al castello del Catajo

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Tra le visite a Venezia e a Bologna, Liszt si esibisce per l’Imperatore d’Austria presso il castello del Catajo, un’imponente fabbrica di origine medievale che sorge non lontano da Padova, nell’attuale comune di Battaglia Terme ai piedi dei colli Euganei. Partendo da un nucleo quattrocentesco, la famiglia Obizi diede sviluppo alla fabbrica alla fine del Cinquecento, ingrandendola a varie riprese sino al XIX secolo. Il castello ospitava uno dei primi teatri del Veneto e importanti collezioni d’arte, di strumenti musicali e di armi (oggi conservate all’Hofburg e al Kunsthistorisches Museum di Vienna) aperte al pubblico. Con l’estinzione della famiglia Obizi nel 1803, la proprietà passò in eredità agli Asburgo-Este duchi di Modena e Reggio, che qui trascorsero il loro esilio da Modena negli anni del periodo napoleonico. Con la Restaurazione, Francesco IV costruì l’ala detta “Castel Nuovo” che avrebbe ospitato, nel 1838, la famiglia imperiale al gran completo. Franz Liszt in quell’anno è reduce dalla tappa genovese del suo pellegrinaggio italiano e sta per raggiungere Bologna dove ha appuntamento con Marie. Come suddito dell’Impero non può sottrarsi all’invito di esibirsi di fronte alla famiglia imperiale che si trovava riunita al Catajo in una sosta del viaggio di presentazione ai sudditi di Ferdinando I, già imperatore d’Austria e re d’Ungheria dal 1835, incoronato a Milano Re del Lombardo Veneto il 6 settembre 1838. Uno sguardo al parterre che ascoltò Franz Liszt al Catajo è utile per comprendere la fama di cui godeva in quel momento il giovane pianista: Ferdinando I d’Asburgo-Lorena, Imperatore d’Austria e re d’Ungheria; l’imperatrice Maria Anna di Savoia; Maria Luisa di Parma, sorella dell’Imperatore, già consorte di Napoleone e duchessa regnante di Parma, Piacenza e Guastalla; Teresa di Sassonia-Hildburghausen regina di Baviera; Ranieri D’Asburgo viceré del Lombardo-Veneto con la consorte Maria Elisabetta di Savoia-Carignano (sorella di Carlo Alberto) oltre a, naturalmente, il padrone di casa Francesco IV duca di Modena. Una lettera indirizzata dal Catajo a Marie che l’attendeva a Bologna, ci parla con accenti malinconici di un Liszt che non sembra proprio a suo agio in questo tipo di situazione: «Eccomi dunque al colmo dei miei dolori e dei miei onori […] Ho avuto l’onore di farmi ascoltare al Catajo davanti alle loro Maestà, l’Imperatore e l’Imperatrice» […].
Per fortuna la generosa offerta dell’Imperatore (1000 franchi!) riuscì a fargli sopportare con disinvoltura il disagio e una lettera di presentazione per il Granduca di Toscana – probabilmente – gli fece ritornare il buonumore. Non si deve dimenticare, infatti, che Liszt doveva pensare a mantenere una famiglia numerosa ed esigente: una contessa con due figlie piccole e un buon numero di aiutanti e la madre rimasta a Parigi.

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13 – Pianoforti in viaggio: Érard, Pleyel, Streicher

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Nel corso dell’Ottocento la scienza e la tecnica impressero uno sviluppo veramente impressionante alla costruzione degli strumenti musicali. In particolare il pianoforte, dopo gli eleganti prodromi settecenteschi di Bartolomeo Cristofori, ebbe un percorso evolutivo dirompente che negli anni ‘30 dell’Ottocento era in piena effervescenza e innovazione. Nuove conoscenze ingegneristiche (innumerevoli i brevetti registrati) e di fisica del suono, nuove capacità tecniche nella produzione delle corde, nuove idee estetiche portarono alcuni geniali costruttori come Pleyel ed Érard, i cui nomi rimangono ancora oggi leggendari, a elaborare nuove e sofisticate macchine sonore capaci di imporsi in ampi spazi e tali da reggere il confronto con le più agguerrite e numerose compagini orchestrali. Il pianoforte divenne protagonista del moderno recital solistico, la cui invenzione venne reclamata proprio da Franz Liszt, rivoluzionando delle consuetudini sociali di ascolto che avevano nell’Accademia strumentale e vocale, ovvero nella compresenza nella stessa serata dei più disparati interpreti, il modello performativo. Le nazioni che si contesero in quegli anni il primato nella costruzione dei pianoforti furono l’Austria, la Francia e l’Inghilterra. In particolare Parigi divenne il campo di battaglia della competizione tra Pleyel, i cui strumenti erano apprezzati da Chopin e Rossini, e Érard, autore di strumenti più “robusti” che ben sopportavano il vigore esecutivo di Franz Liszt. Tra gli strumenti cosiddetti viennesi si imposero quelli della ditta Streicher, strumenti che Beethoven aveva definito «troppo buoni per me … perché mi rubano la libertà di produrre il mio suono». Oltre ai nuovi rinforzi metallici dello strumento, la cui struttura in legno era ormai insufficiente a reggere la tensione delle nuove corde, è nella meccanica che si giocano principalmente le innovazioni tecniche, e in particolare nell’evoluzione del cosiddetto scappamento del tasto, il meccanismo che permette al martelletto di riabbassarsi per essere pronto, il più velocemente possibile, a percuotere nuovamente la corda. Tutto era disposto per interpretare costruttivamente i nuovi orizzonti della genialità pianistica di Liszt. Grazie ad una lettera scritta da Siena alcuni mesi dopo il concerto del Catajo all’amico Pierre Érard, figlio del fondatore dell’omonima casa di pianoforti, sappiamo che Liszt viaggiava con al seguito un pianoforte Érard che egi stesso promuoveva nei suoi concerti. In occasione del concerto del Catajo il duca di Modena si fece lasciare in prova il pianoforte di Liszt: questo aneddoto, oltre a raccontarci qualcosa in più della quotidiana vita di una “pellegrino” del pianoforte, ci spiega anche perché Liszt a Bologna, non avendo a disposizione un pianoforte Érard per le due accademie alle quali partecipò, scelse di utilizzare un pianoforte Streicher prestatogli dal principe Filippo Hercolani piuttosto che il Pleyel di Sampieri o di Rossini, strumenti della casa concorrente a quella di Érard. E Rossini, in Italia, era promotore degli strumenti di Pleyel…

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14 – I moti del ’30. Riflessi sulla società bolognese

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Quando Liszt e Rossini si ritrovano a Bologna agli inizi di ottobre 1838, si erano appena assopite le tensioni che avevano acceso l’insurrezione delle provincie sottoposte al dominio pontificio in seguito ai moti francesi del 1830-1831. In particolare, nel ducato di Modena la carboneria locale con a capo Ciro Menotti aveva organizzato un grande movimento di insurrezione che si era allargato a numerose città, da Bologna alle Marche e all’Umbria. I territori emiliani e romagnoli, infatti, ospitavano una fitta rete di società segrete pronte a intervenire per sovvertire l’ordine costituito e a innescare un moto liberale. Quando gli insorti avevano dichiarato la secessione delle Legazioni di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì dallo Stato della Chiesa, se si eccettua qualche scontro tra insorti e gendarmi, le autorità pontificie avevano ceduto il potere senza opporre resistenza. Le nuove autorità provvisorie avevano proclamato la nascita delle Province Unite Italiane, una repubblica parlamentare con capitale Bologna sotto la presidenza di Giovanni Vicini che ne promulgò la costituzione. I membri della Commissione provvisoria erano Francesco Bevilacqua Ariosti, Francesco Orioli, Cesare Bianchetti, Antonio Silvani, Antonio Zanolini, Alessandro Agucchi, Carlo Pepoli. Le basi della nuova realtà politica, tuttavia, erano molto deboli, inoltre non aiutarono la causa secessionista le notevoli discordie presenti tra gli stessi capi della rivolta. Gli austriaci non tardarono a reagire: scesero verso il Po seguendo la via del Brennero; oltrepassato il fiume (25 febbraio 1831) si diressero verso Modena. In pochi giorni furono a Bologna e poi a Ferrara. Il 26 aprile 1831 l’esercito austriaco, in nome della Santa Alleanza, stroncava le ambizioni dei ribelli e le Province Unite cessavano di esistere. In breve tempo fu ristabilito l’ordine, cui seguirono condanne a morte e fughe in esilio. La più evidente e dura conseguenza del fallimento dei moti del ’31 fu l’acquartieramento a Bologna di truppe austriache del reggimento Kinski che vi rimase fino all’estate del ‘38 e se ne partì dopo un’imponente manifestazione in Piazza del Mercato (oggi Piazza VIII Agosto). Nel Libro dei compromessi politici la polizia pontificia annotò i nomi dei rivoltosi dei moti del ’21, del ’31 e di quanti negli anni seguenti furono sospettati di cospirare contro il governo della Chiesa. Oltre a quelli appena citati si trovano soprattutto nomi di appartenenti alle classi artigiane e professionali. Pochi percentualmente i nobili, tra i quali risaltano i nomi di Francesco Sampieri («Si vuole nel numero dei settari rivoluzionari e dei nemici del Governo, tanto nei 44 giorni, quanto nel tempo dell’anarchia diede sussidi a vantaggio del liberalismo») e della principessa Donna Maria Hercolani («Esaltatissima in ambedue le epoche. Nel di lei palazzo bene spesso vi furono, come tuttora vi sono, riunioni dei più esaltati liberali contrari al Governo. Ha essa contribuito per gli emigrati che trovansi bisognosi; dà parimenti sussidi a chi a lei si presenta purché sia della classe dei liberali, ed è delle contribuenti della Cassa rivoluzionaria per quanto ritiensi nell’opinione di molti»). Molti nomi di liberali figurano tra gli iscritti e tra gli appartenenti alla direzione della Società del Casino dei nobili, dove Liszt tenne il suo primo concerto bolognese. Tra il 1835 e il 1838 si assistette all’iscrizione di nuovi soci – alcuni esiliati inseriti come corrispondenti anche non quotizzanti – di area liberale. Tra questi Augusto Anglebert (fratellastro di Carlo Berti Pichat), Rodolfo Audinot, Francesco Rizzoli, il marchese Pietro Pietramellara, Marco Minghetti, il marchese Alessandro Guidotti, Luigi Loup, Carlo Gabussi, tutti personaggi che alcuni “zelanti”, schierati su posizioni particolarmente reazionarie, tentarono di allontanare dal Casino.

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15 – Bologna

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Forse andrò a fargli una visita questa estate a Bologna, dove egli [Rossini] tornerà all’inizio di aprile e si fermerà per tutta l’estate. Quanto a me, partirò per Venezia a metà marzo. Di là a Bologna, Firenze, Genova…

Così Liszt scriveva agli inizi del 1838 in una lettera al violinista belga Lambert Massart. Franz però arriverà a Bologna soltanto agli inizi di ottobre, un cambio di programma dovuto a varie ragioni impreviste e soprattutto alla deviazione viennese per partecipare alla raccolta fondi in favore delle vittime delle disastrose alluvioni del Danubio in Ungheria, un fatto che aveva avuto una grande eco anche in Italia. A Bologna Liszt si ricongiunge con Marie che l’aveva impazientemente aspettato, e come prima cosa si recano subito all’Accademia per vedere i quadri dei Carracci, di Guido Reni e, soprattutto, la Santa Cecilia di Raffaello. L’aspetto “privato” della prima visita a Bologna si conferma nella tappa successiva del loro viaggio in Italia: invece di dirigersi direttamente a Firenze i due amanti lasciano Bologna attraverso Porta S. Vitale e vanno a Ravenna, per continuare la loro vacanza artistico-letteraria in un clima di memorie, d’amori e di cospirazioni nel nome di Dante e di Byron. Questa deviazione rispetto alla linea diretta Bologna-Firenze non stupisce se si pensa all’aura che circondava Dante presso i romantici, aura alla quale Liszt e Marie si abbandonarono completamente. Nel periodo delle visite bolognesi, infatti, Liszt scrisse numerosi abbozzi di quella che diventerà la Sonata Dante e cominciò a comporre i tre Sonetti del Petrarca, Benedetto sia ’l giorno, Pace non trovo, I’ vidi in terra, più volte rimaneggiati fino gli anni ’60. Liszt tornerà a Bologna nel dicembre di quell’anno e di questo soggiorno (dove mette a frutto i contatti professionali con buona evidenza promossi attraverso Rossini) abbiamo notizie più dettagliate grazie alla corrispondenza con Marie, rimasta a Firenze. Bologna è un centro pianistico italiano di non secondaria importanza grazie alle figure di Benedetto Donelli, insegnante al Liceo musicale dal 1817 al 1839, di Gaetano Corticelli, insegnante al Liceo per un solo anno tra il 1839 e il 1840, e soprattutto di Stefano Golinelli, il pianista che dal 1840, poco più che ventenne, Rossini volle come insegnante di pianoforte principale presso il Liceo, uno dei pochi pianisti italiani ad esibirsi con successo in Germania, raccogliendo vivi consensi anche da parte di Schumann. A Bologna si trova in quel periodo anche il pianista Robert Müller, un tedesco in realtà residente ad Edimburgo, allievo di Hummel, Kalkbrenner ed Herz. “Dilettante” di pianoforte per motivi di casta, non certo per capacità musicali, fu Teresa Angelelli, che nel 1842 troviamo nell’organico dello Stabat Mater rossiniano diretto da Donizetti. Teresa era moglie del principe Filippo Hercolani, anch’egli dilettante di pianoforte, e figlia del letterato e grecista Massimiliano Angelelli che, appassionato di violino e di musica tedesca, era sto una figura di grande importanza nelle vicende musicali del giovane Rossini.

Ad alta sublimissima meta vedesi già pervenuta la Nobile Dama signora Principessa Teresa Hercolani nata Angelelli. Leggiadra di forme, amabile di sembiante, ed in verde etade delle più belle virtù doviziosamente fornita, valevoli a costituirla l’onor del suo sesso, a sì rare doti accoppia profonde cognizioni nell’arte della musica. Suonatrice somma di Piano-forte, eseguisce su questo istrumento quanto vi può essere di più difficoltoso, e straordinario [Teatri, Arti e Letteratura, 17 maggio 1838].

Liszt arriva quindi a Bologna la domenica prima di Natale, ma sulla prima lettera indirizzata Marie segna una data sbagliata (21, invece che 23 dicembre) e scrive: «Prima di tutto devo dirvi che sono stato molto triste questa notte e oggi. Per diverse ragioni, ma soprattutto per una. Ho dimenticato il vostro anello sul caminetto! Se è possibile inviatemelo tramite il polacco (Bryezinsky)». Il soggiorno bolognese di Liszt sembra nascere sotto cattivi auspici: alla Locanda di S. Marco (forse è qui che Liszt e Marie avevano alloggiato in ottobre) tutte le stanze sono impegnate. Deve allora rivolgersi di fronte, alla Locanda dei Tre Mori, dove trova soltanto una stanza «méchante», che non fa che aumentare il suo malumore. Fortunatamente «heureusement» il marchese Sampieri, sapendolo solo, lo ospita nel suo palazzo di via Santo Stefano: drappi rossi sul letto, vista su un giardino in cui passeggiano variopinti pavoni e una cameriera di nome Annetta a disposizione. Si tratta del complesso attaccato al palazzo della Mercanzia racchiuso tra le vie Santo Stefano, Castiglione e vicolo Sampieri. Oltre a questa e alla sontuosa residenza estiva di Casalecchio (distrutta nel corso della Seconda guerra mondiale), il marchese possedeva anche un palazzo in Strada Maggiore noto per gli affreschi dei Carraccai e del Guercino, dove si trovava una galleria d’arte. Sempre dalla corrispondenza sappiamo che Liszt, da bravo viaggiatore romantico, non trascura di leggere «qualche capitolo» del Purgatorio, ma quando Rossini viene a trovarlo per dargli notizia della sua agenda sociale e concertistica bolognese, lo trova addormentato. In quella stessa sera del 23 dicembre «cena in famiglia» dai Sampieri: «la Marchesa è spagnola. Ha 38 anni e ha i baffi (dice Liszt). Detesta Sampieri, parla poco e con un certo sussiego. Suo zio, il cardinal Gregorio, è il gran penitenziere del Papa […]. Leggera disputa coniugale. Il marito buono, la moglie altera». La marchesa Sampieri, al secolo Anna de Gregorio, era nata in Spagna ed era stata dama di corte dell’Infanta. La mattina seguente – vigilia di Natale – Liszt si reca a casa Rossini in Strada Maggiore 26; i due amici vanno a fare colazione al caffé e Liszt è colpito dal modo cordiale con cui Rossini chiacchiera con bottegai e mendicanti che incontra per strada: «Homme singulier! Homme prodigieux!». A mezzogiorno Rossini lo conduce al Casino sito nel palazzo Salina Amorini Bolognini, piazza S. Stefano 11, e lo lascia lavorare tranquillo per un paio d’ore. Alle due del pomeriggio ritorna da lui insieme ai principi Hercolani (lui di 27 e lei di 20 anni, «molto semplici e graziosi») e al pianista Müller, che dà a Liszt l’impressione di avere qualche prevenzione nei suoi confronti. Ma i due in breve si mettono a chiacchierare e Liszt gli suona il suo Studio in La bemolle. Alle 4 del pomeriggio Liszt rientra e impiega due ore a scrivere agli editori Schlesinger, Ricordi, Schonenberger e Coks. Rossini interrompe il lavoro di Liszt alle 18 per condurlo a casa sua, dove s’intrattengono in piacevoli conversari con Olimpia Pélissier la compagna del Pesarese (che Liszt un poco ironicamente non sa se chiamare “Signora” o “Signorina”) fino al momento di andare a cena dal marchese Sampieri, dove è predisposta la cena della vigilia con una ventina di invitati. La serata si protrae fino alle 4 del mattino. La lunga veglia non impedisce a Liszt di recarsi presto al Casino per lavorare, ma gli Hercolani e il pianista Müller lo intrattengono in conversari per tre ore! Tornato a casa, Liszt confessa a Marie che la festa di Natale lo rattrista e che la lettura di un articolo di Quinet su un recente libro di David Friedrich Strauss, La vita di Gesù, lo ha fatto riflettere sulle più grandi verità della nostra religione, lasciandolo pieno di dubbi. Al concerto al Casino, che si tenne la sera di Natale, oltre alle persone e agli artisti citati da Liszt nelle lettere a Marie d’Agoult, possiamo presumere che fossero presenti alcuni dei membri della Società del Casino dei Nobili. Nella corrispondenza lisztiana il concerto è descritto con poche frasi lapidarie: «Successo inaudito dopo quello della Malibran, e più completo perfino di quello della Malibran. Non ho fatto nessuna conoscenza femminile». Liszt è riaccompagnato a casa dal Müller che resta a chiacchierare con lui fino all’una e mezza di notte. Nell’accademia si erano esibiti artisti di vaglia come il basso Carlo Zucchelli con la moglie, il soprano Ester Mombelli, ed erano state presentate al pubblico tre allieve della famosa soprano e didatta Teresa Radicati Bertinotti. Il programma aveva presentato, tra composizioni di Vincenzo Gabussi (protegé di Rossini), Donizetti, Mayr, Rossini, Cimarosa, le Reminiscenze dai Puritani di Liszt e l’elaborazione lisztiana della Serenata e dell’Orgia dalle Soirées rossiniane. Dal punto di vista del programma, dunque, il concerto di Liszt al Casino dei Nobili rientra pienamente nei canoni della prassi non solo cittadina, ma nazionale. Forse ha ragione Liszt quando riferisce a Marie che si sia trattato di un successo, se è vero che ne giunse l’eco perfino nella lontana Germania, dove il redattore dell’Allgemeine Musikalische Zeitung di Lipsia diede un rapido resoconto delle quattro accademie tenutesi al Casino nel dicembre ’38, proseguendo:

Ma chi riuscì col suo pianoforte a far grande scalpore e a scatenare entusiastici applausi fu l’ospite Liszt, paragonato nientemeno che a Paganini. Un giornale del luogo arrivò perfino a lodare i suoi “cupi suoni che immaginar ti fanno le sue nebbie del Nord!” .

Un lettore malizioso potrebbe però pensare che quei «cupi suoni» più che a una scelta interpretativa fossero dovuti a difetti del pianoforte Pleyel su cui aveva dovuto suonare. Lo strumento era stato imprestato per l’occasione da una Dama non meglio identificata, e passava per essere uno dei migliori usciti dalla famosa fabbrica parigina. Ma Liszt, forse per via della sua propensione per il suono degli Érard, in una lettera a Marie lo giudica «sordo da fare paura» e per il secondo concerto prega il principe Hercolani di prestargli il suo Streicher viennese che gli piaceva «enormemente di più». L’aveva provato la sera del 27 dicembre durante una cena con musica nel Palazzo Hercolani di Strada Maggiore. In casa Sampieri, durante la grande cena del 28, probabilmente suonò di nuovo un Pleyel, vista la predilezione del Marchese per questo strumento, del resto molto amato anche da Rossini. Così dopo laute cene, lunghi conversari ed esibizioni private nei palazzi più “musicali” della città, Liszt giunge alla sera del 29, alla sua “personale” accademia alla Sala Sampieri, non come un ospite di passaggio ma come un personaggio di grande levatura, perfettamente integrato nel tessuto dell’aristocrazia musicale cittadina. E di nuovo il giornale tedesco chiosa l’evento: «Nel locale del nominato Sampieri, Liszt si esibì da par suo nella sua propria Accademia, dove suonò tre pezzi di sua composizione e fece applaudire il pubblico con grande convinzione». Per questo concerto ci sono giunte notizie anche dalla stampa locale. In particolare Il Solerte gli dedica un articolo molto dettagliato, nel quale l’autore, oltre ad osannare le doti interpretative del protagonista, trova modo di osservare che «il talento di Liszt quale compositore si può dire eminentemente plastico o in altri termini che l’artistica di lui individualità si spiega in particolar modo nella ricchezza della forma». A proposito della partenza di Liszt da Bologna abbiamo ancora una volta testimonianze controverse: Marie d’Agoult scrive nel suo diario che Franz è arrivato a Firenze il 1° gennaio a mezzogiorno, ma proprio in quel giorno Liszt presenta la sua domanda d’ammissione all’Accademia Filarmonica, ed anche il giornale di Lipsia sposta un poco in avanti la sua partenza.

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16 – Liszt e l’arte

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Le lettere private di Liszt come quelle pubbliche (le famose Lettres d’un bachelier ès-musique) scritte in questi anni per la Gazette musicale di Parigi sono piene di riferimenti all’arte italiana: Raffaello, Michelangelo, Carracci, Bellini, Beato Angelico…

Il bello di questo privilegiato paese mi appariva sotto le sue forme più pure e sublimi. L’arte si mostrava ai miei occhi in tutto il suo splendore, si rivelava a me nella sua universalità e nella sua unità. Il sentimento e la riflessione mi convincevano, ogni giorno di più, della relazione nascosta che unisce le opere al genio creatore. Raffaello e Michelangelo mi facevano capire meglio Mozart e Beethoven, Giovanni Pisano, Beato Angelico, mi spiegavano il Correggio, Benedetto Marcello, Palestrina. Tiziano e Rossini mi apparivano come due astri dai raggi simili.

Liszt a Parigi aveva conosciuto e frequentato lo scrittore d’arte Alexis-François Rio, uno dei teorici che avrebbero maggiormente ispirato l’evoluzione dell’arte cristiana nel corso dell’Ottocento. Nel 1832 Liszt aveva presentato una scelta di Lieder di Schubert – allora pressoché sconosciuto in Francia – proprio nel salotto di Rio. L’intellettuale francese di lì a poco, nel 1835, avrebbe dato alla luce De la poésie chrétienne – Forme de l’art, un libro che tratta dell’arte cristiana da Cimabue alla morte di Raffaello. Il testo non ebbe un grande successo in Francia, ma venne accolto con grande entusiasmo in Italia e in Germania: l’esaltazione della pittura cosiddetta “primitiva”, la semplicità di composizione, il superamento del naturalismo giottesco, simbolismo e trasporto mistico, l’adesione alla corrente religiosa della cerchia di Ingres e dei suoi allievi e ildesiderio di formare una confraternita di artisti parallela a quella dei Nazareni erano i temi fondanti del suo pensiero critico che trovava punti di contatto con altri artisti frequentati da Liszt a Parigi, in particolare Ary Sheffer. Autore di numerosi quadri di soggetto religioso di ispirazione cattolica nonostante la sua fede protestante, Sheffer fu anch’esso animatore di un atelièr / salon dove si incrociavano intellettuali, pittori, musicisti, politici. Le due tele di Sheffer del 1835 sul soggetto di Dante e Virgilio che incontrano le anime di Paolo e Francesca, assieme all’imponente Barca di Dante del 1822 di Delacroix, sono state opere importanti per la riflessione di Liszt su Dante, che fu vero compagno di viaggio e costante tema di interesse nel pellegrinaggio italiano di Franz e Marie, da Como, dove la coppia espresse perplessità di fronte alla statua di Dante e Beatrice di Giovanni Battista Comolli (così magnificata nella guida del Valéry) a Firenze con von Stürler e i suoi interessi danteschi, e a Roma con Ingres (altro interprete dell’episodio di Paolo e Francesca) e con Joseph Anton Koch, l’autore degli affreschi danteschi del Casino di Villa Giustiniani Massimo. Ingres, con i suoi soggiorni romani e fiorentini, divenne uno dei principali punti di riferimento per il movimento purista italiano, “capeggiato” da Lorenzo Bartolini, lo scultore che Liszt avrebbe voluto come autore del monumento di Beethoven a Bonn. Naturalmente la frequentazione artistica con Ingres fu quella a rivestire per Liszt il carattere più intenso e particolare tra tutte quelle avute con artisti come Overbeck e i Nazareni, Koch, Henri Lehmann (il pittore tedesco che Liszt e Marie frequentano in Italia e col quale Marie avrà successivamente una relazione). Ingres era infatti un abile violinista, amico di Paganini e Baillot, e con Liszt passò ore a suonare opere per violino e pianoforte di Mozart, Beethoven e Bach. L’attitudine del pittore francese verso la musica fu talmente forte d’aver lasciato traccia nell’espressione colloquiale francese avoir un violon d’Ingres, con la quale si intende la capacità di un’artista di avere un’uguale perizia tecnica ed espressiva in altra attività artistica differente da quella principale. L’importanza del rapporto di Liszt con l’arte e la ricchezza delle sue frequentazioni artistiche non possono essere riassunte in brevi cenni. Riportiamo qui solo un momento impressivo di questo rapporto: la tappa bolognese del viaggio di Liszt, in particolare il primo breve soggiorno dell’ottobre 1838, avrebbe lasciato un’importante testimonianza nella lettre d’un bachelier es-musique dedicata alla visita all’Accademia di Belle Arti di Franz e Marie.

Arrivando a Bologna, corsi al Museo; attraversai senza fermarmi tre sale piene di quadri di Guido, del Guercino, dei Carracci, del Domenichino ecc.; avevo fretta di vedere la Santa Cecilia. Sarebbe per me difficile, addirittura impossibile, farvi capire ciò che ho provato trovandomi all’improvviso di fronte a questa magnifica tela in cui il genio di Raffaello ci appare in tutto il suo splendore. Conoscevo i capolavori della scuola veneziana; avevo appena visto i Van-Dyck di Genova, i Correggio di Parma e a Milano la Madonna del Velo, una delle più sublimi creazioni di Raffaello. Ma, pur ammirando l’ardimento, lo splendore, la verità, la soavità di questi dipinti, sentivo che con nessuno ero entrato intimamente in contatto; ero sempre rimasto spettatore. Nessuna di queste belle composizioni si era, se posso esprimermi cosi, impadronita di me com’è accaduto con la Santa Cecilia. Non so per quale segreta magia, questo quadro mi si presentò immediatamente sotto un duplice aspetto: innanzi tutto come un’incantevole espressione della forma umana in ciò che ha di più nobile, di più ideale, come un prodigio di grazia, di purezza, d’armonia; poi nello stesso istante e senza alcuno sforzo d’immaginazione, credetti di riconoscervi un simbolo ammirevole e completo dell’arte cui abbiamo consacrato la nostra vita. La poesia dell’opera mi apparve in modo tanto visibile quanto la disposizione delle sue linee e la sua bellezza ideale mi prese quanto quella plastica. Il pittore ha scelto il momento in cui Santa Cecilia si appresta a cantare un inno a Dio onnipotente: sta per celebrare la gloria dell’altissimo, l’attesa del giusto, la speranza del peccatore; la sua anima freme dello stesso fremito misterioso che coglieva Davide quando si accingeva a suonare la santa arpa. All’improvviso i suoi occhi sono mondati da un chiarore, le sue orecchie d’armonia; le nubi si schiudono, i cori degli angeli le appaiono, l’eterno hosanna risuona nell’immensità. Gli occhi della vergine si levano al cielo, tutto il suo atteggiamento esprime l’estasi, le sue braccia ricadono languide lungo i fianchi, si lasciano quasi sfuggire lo strumento sul quale canta i sacri cantici. Si sente che la sua anima non è più sulla terra; il suo bel corpo sembra pronto a trasfigurarsi… Ditemi, non avreste visto – come me – in questa nobile figura il simbolo della musica al suo livello più alto di potenza? L’arte, in ciò che ha di più immateriale, di più divino? Questa vergine sospinta oltre la realtà dall’estasi, non è forse l’ispirazione quale talvolta giunge al cuore dell’artista, pura, vera, rivelatrice e liberata da ogni appesantimento grossolano? I suoi occhi fissati sulla visione, l’inenarrabile voluttà diffusa su tutti i suoi lineamenti, il languore delle sue braccia che si piegano sotto il peso di una beatitudine sconosciuta: non è forse l’espressione dell’impotenza umana in lotta col desiderio e la percezione delle cose divine? Non è la più poetica idealizzazione dello scoraggiamento che prende il poeta nel momento dell’abbondanza e della pienezza della sua partecipazione agli infiniti misteri, quando sente e comprende che non potrà riportare agli uomini niente di quel banchetto celeste al quale è stato invitato? […]

Liszt esprime nell’articolo profonda commozione di fronte al quadro di Raffaello, ma dal diario di Marie si evince che al momento della visita le loro impressioni fossero state di altro tenore: sembra infatti che Franz abbia ammirato soprattutto il grande dipinto della Pietà dei mendicanti di Guido Reni, avanzando invece alcune critiche alla Santa Cecilia. Forse, ripensando “criticamente” al dipinto nel momento in cui scrisse la lettera, e considerando le sue lettere come importanti momenti di riflessione teorica, Liszt sarebbe ritornato ad una visione di Raffaello più vicina alle teorie dell’arte cristiana da lui frequentate, che furono anche ispirative della sua produzione musicale cristiana, come Die heilige Cäcilia-Legende e Cantantibus organis (opere scritte negli anni ‘70 e più volte riveduti), come la trascrizione per pianoforte del brano strumentale di Charles Gounod Hymne à Sainte Cécile nel 1866 o il grande oratorio Die Legende der heiligen Elisabeth, una delle opere in cui cerca più ambiziosamente di realizzare un i rapporto tra musica, poesia e arte. Il libretto dell’oratorio traeva infatti ispirazione dal ciclo di sei affreschi realizzati da Moritz von Schwind per il castello di Wartburg.

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17 – Firenze e Pisa

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Nella capitale del Granducato di Toscana Liszt non modifica il comportamento tenuto durante la prima parte del viaggio nelle regioni sotto la dominazione degli Asburgo o a quella papale: come altrove s’immerge nella vita culturale della città. In particolare sottoscrive un abbonamento al Gabinetto Letterario Vieusseux, incontra i musicisti locali Luigi Picchianti, Ferdinando Giorgetti, Luigi Ferdinando Casamorata, Maximilian Joseph Leidesdorf. Frequenta i salotti più in vista della città – i Martellini, gli Orloff, i principi Poniatowski – e si presenta in teatro, prima come spettatore de L’Elisir d’amore di Donizetti poi come protagonista di un proprio concerto (Teatro Standish, 8 novembre). Forse accompagna egli stesso i cantanti nella cavatina della Sonnambula di Bellini e nel duetto della Lucia di Lammermoor (come di consueto nei concerti dell’epoca), ma ad essi accosta i suoi brani-carta da visita: la trascrizione dell’Ouverture del Guglielmo Tell di Rossini e le Réminiscences des Puritains. Tra visite, concerti, passeggiate e frequentazioni salottiere Liszt trova il tempo per farsi ritrarre dal pittore von Stürler e per posare per un busto presso lo scultore Lorenzo Bartolini, il quale sancisce l’unione dei due amanti con un calco delle loro mani in otto esemplari, uno dei quali è ora in possesso del pianista fiorentino Gregorio Nardi, che lo ha ricevuto in dono da sua nonna, la pianista Gregoria Gobbi Nardi. Forse perché ormai la fama di eccelso pianista lo precede, o forse perché aveva in tasca una lettera di presentazione di Ferdinando I, il 17 novembre Liszt si esibisce a Palazzo Pitti davanti al granduca Leopoldo II, alla sua famiglia e a un gran numero di invitati, e di nuovo torna a corte l’11 dicembre insieme ai cantanti Cosselli, Moriani, Pixis, Ungher, già ascoltati nella precedente accademia, e a Giuseppina Strepponi, futura moglie di Giuseppe Verdi, e al compositore e violinista Ferdinando Giorgetti. Dal confronto tra il compenso di Liszt e quello degli altri musicisti della serata si ricava l’importanza assegnata alla star del momento: egli è l’unico, insieme alla Ungher, a ricevere 100 zecchini in oro; seguono Moriani con 80, Cosselli con 60, la Pixis con 40. Ancora più ridotto è il cachet dei restanti protagonisti: 800 lire d’argento alla Strepponi, 333 a Giorgetti, 200 a Marcucci. Nei mesi fiorentini Liszt e Marie si muovono da Firenze per visitare le città e i salotti più importanti del Granducato dove incontrano intellettuali, artisti e politici, italiani e stranieri, di passaggio o in volontario esilio. In questo contesto ha un rilievo tutto particolare la conoscenza con la marchesa Maria Martellini, Maggiordoma della granduchessa Maria Ferdinanda di Sassonia, di 14 anni più vecchia di Liszt, ma al cui fascino egli non fu insensibile. Tra l’agosto e l’ottobre del 1839, nel corso del soggiorno tra Lucca e San Rossore (Pisa), Liszt le scrive cinque lettere (ora conservate nell’Archivio manoscritti della Fondazione Istituto Liszt) in cui le descrive la sua attività di bachelier ès-musique, le sue ultime composizioni, momenti della sua vita:

«Da quindici giorni abito con i daini ed i cammelli [sic] della foresta di San Rossore senza vedere anima viva. È il più ammirevole soggiorno che immagino. Il mare, i fruscii dei pini, il sole che tramonta sulla spiaggia, – e poi all’orizzonte, molto in lontananza l’isola d’Elba, e più vicine a noi le montagne di Carrara – quali grandezze quali meraviglie! Perciò sono deciso a non lasciare questo luogo incantevole prima del mese prossimo. Sarà l’ultimo grande ricordo che porterò dell’Italia… Forse anche più tardi finirò per stabilirmi, almeno durante i mesi estivi, in questa armoniosa foresta… […] A presto dunque / F.L./ Settembre 18/39».

Pare proprio che in questa lettera si rifletta l’ultima immagine che Liszt conserva del suo primo viaggio in Italia; infatti il 18 ottobre Franz e Marie si separano a Livorno.

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18 – Franz Liszt: ritratti e passioni

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Le immagini del pannello:

Lorenzo Bartolini (1777-1850)
Maschera in gesso dal vivo di Franz Liszt, 1839

Busto all’eroica di Franz Liszt, 1838-39. Gesso, Firenze, Galleria dell’Accademia

Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867)
Ritratto di Franz Liszt dedicato a Marie d’Agoult, Roma, 1839

Ary Sheffer (1795-1858)
Ritratto di Franz Liszt, 1837

Joseph Kriehuber (1800-1876)
Ritratto di Franz Liszt in costume nazionale ungherese, Weimar, Liszt-Haus

Il giudizio che i visitatori della mostra possono farsi di Liszt osservando i suoi ritratti può essere arricchito dalla diagnosi fatta dal frenologo americano residente a Milano dott. Michel Castle che studiò il cranio di Liszt attorno al 1844 e pubblicò in francese i risultati «scientificamente esatti» della sua ricerca,
Étude phrénologique sur le caractère originel et actuel de Mr. Liszt [ … ] traduit du manuscript anglais, Milano, Tip. Radaelli, 1847. La prima parte dell’analisi identifica i caratteri innati, cioè le «disposizioni primitive predominanti» distinte nelle due “classi” dei sentimenti e delle facoltà intellettuali, come si rilevano dalle misurazioni compiute sulle diverse parti della testa. Per quanto riguarda il carattere di Liszt egli afferma che:

«nella classe dei sentimenti sono la generosità, l’affezione e l’ambizione ad avere la preminenza, mentre fra le facoltà intellettuali incontriamo facoltà percettive e soprattutto memorative di una prontezza assai considerevole, una facilità di parola ben sviluppata, la predominanza delle capacità riflessive, e le facoltà che danno origine alle ispirazioni d’immaginazione, insieme alla tendenza così difficile da definire, chiamata spirito di riuscita. Infine vi troviamo un talento musicale assai considerevole. Ora, se osserviamo che nel sig. Liszt l’energia di un temperamento tutto d’azione si combi1Ja con uno sviluppo debole delle facoltà che producono la riservatezza e la stabilità o la capacità di concentrarsi al perseguimento di un obiettivo, dovremo inferire, per ciò che riguarda i sentimenti, che esiste in lui una tendenza all’impulsività e all’imprudenza, e, per quanto riguarda le facoltà intellettuali, una tendenza a pensieri vaghi e a una noncuranza generale, o, quanto meno, una necessità per lui imperiosa di cambiare o di variare i soggetti di applicazione mentale

Su questi caratteri naturali vengono però ad agire le circostanze esteriori della vita dell’individuo, e queste possono essere tali da modificare o da potenziare le attitudini primarie. Naturalmente in un bambino i caratteri naturali sono più scoperti e l’analisi delle manifestazioni infantili di Liszt conferma quanto era stato rilevato dalle misurazioni condotte solo sulle cifre e non corredate da alcun riferimento a vicende biografiche. Ma la parte più interessante dell’analisi è quella che si riferisce all’età adulta, quando l’uomo si è completamente formato attraverso le proprie particolari esperienze e i dati iniziali assumono le caratteristiche tipiche di quella determinata personalità.

«Contemplando il carattere del sig. Liszt all’epoca della sua età adulta, troviamo che non differisce da quello che era nella sua infanzia, se non per uno sviluppo più completo delle sue forze primitive che, manifestate fino ad allora soltanto come delle tendenze e delle potenzialità, ora si trovano ad aver preso la forma di desideri imperiosi e di passioni, e fra queste emergono: l) la sete di gloria, 2) la passione del cambiamento o della varietà, 3) la passione d’amore. Essendo ciascuna di queste passioni essenzialmente distinta dalle altre, ognuna di esse diventa a sua volta centro d’attività dominante, e conseguentemente dà al carattere il tono o la tinta che è propria a ciascuna di esse.
Tuttavia la prima di queste Passioni, avendo un campo d’azione molto più largo delle altre e potendo applicarsi a un maggior numero d’oggetti, è quella che, necessariamente, ha più opportunità d’imprimere il suo marchio al Carattere generale. Benché spesso il sig. Liszt si sia trovato preso da desideri e da pensieri ambiziosi, frequentemente dovette abbandonarsi ai dolci lacci d’Amore, e perfino a volte trovarsi interamente assorbito da una passione composta da questi due elementi, l’Ambizione e l’Amore. Il desiderio di piacere che forma la base del suo genere d’ambizione, agendo in accordo con la benevolenza e l’affettuosità della sua natura, produce quella amabilità e quella compiacenza che debbono generalmente caratterizzare le sue maniere. Lo stesso desiderio, alleandosi alla sua propensione sessuale, produce in lui una galanteria generale verso le donne, e sovente anche un’altra specie di galanteria, non meno impaziente di essere soddisfatta, che è ardita e intraprendente [ … ].»

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19 – Roma. Sulla via del ritorno

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Le immagini del pannello:
Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867)

Studio preparatorio per l’ambientazione di Antioco e Stratonice, 1838

Achille Etna Michallon (1796-1822)
Veduta di Villa Medici e Santa Trinità dei Monti dallo studio di Ingres
nel padiglione di San Gaetano, 1819

Jean-Auguste-Dominique Ingres
Veduta di Villa Medici, s.d.

François-Gabriel-Guillaume Lèpaulle (1804-1886)
Terzetto del V atto dell’opera di Meyerbeer «Robert le diable», 1835
Nicolas Levasseur, Bertram; Adolphe Nourrit, Robert;
Cornélie Falcon, Alice, olio su tela, Parigi, Musée de l’Opéra

Jean-Auguste-Dominique Ingres
Autoritratto, 1835
Matita su carta, Parigi, Musée du Louvre

Jean-Auguste-Dominique Ingres
Ritratto del pittore Henri Lehmann, matita su carta, 1850
New York, The Metropolitan Museum of Art

Luigi Rossini (1790-1857)
Piazza Venezia, 1850
Acquaforte da «Viaggio pittoresco da Roma a Napoli»

Roma, che a partire dagli anni Sessanta sarà uno dei tre punti cardinali della vita di Liszt insieme a Budapest e a Weimar, al primo incontro non pare abbia prodotto su Liszt particolari emozioni, anzi piuttosto un’impressione negativa. Ad esempio, rispondendo a Joseph d’Ortigue che gli aveva chiesto di trovargli dei libri di teorici della musica, in una lettera del 4 giugno 1839 afferma: «Occorre che tu sappia che sotto questo profilo – come sotto molti altri – Roma è una città molto triste. I libri, vecchi e nuovi, sono molto rari e in generale costano moltissimo». Si può facilmente presumere che visitasse gli antichi monumenti della romanità, ma nella corrispondenza e negli scritti del tempo non ne rimane traccia. Grazie alla fama che lo precede, viene accolto nei salotti dove si esibisce con il consueto successo e dove inaugura la prassi del concerto solistico da lui definito “soliloquio”. Il programma del concerto a palazzo Poli ricalca quelli già presentati nei salotti di Milano e di Firenze, come se la vicinanza della sede papale non avesse alcuna influenza sul suo orientamento etico-estetico. A Palazzo Poli, infatti, esegue le sue trascrizioni-fantasie sull’Ouverture del Guglielmo Tell e sul duetto da I Puritani, con l’accento fortemente posto sul finale «Viva la Libertà!», presenta brani suoi recentemente composti (gli Studi) e suscita entusiasmo con le sue improvvisazioni su temi suggeriti dal pubblico.Ma le sue propensioni vanno piuttosto ad artisti e a letterati che lo attraggono verso l’ambiente parigino: il tenore Nourrit, che ritroviamo in ogni tappa in Italia, Charles-Augustin de Sainte-Beuve amico di Victor Hugo, Henri Lehmann, sodale di George Sand e specialmente i pittori raccolti attorno ad Ingres all’Académie de France a Villa Medici. La loro ricerca in campo artistico ebbe non poca influenza su Liszt che proprio durante il viaggio in Italia andava maturando un suo proprio stile di scrittura, emancipandosi dal modello della trascrizione su opere altrui. Tale mutamento si nota nella semplificazione delle forme e nel rifiuto dei dettagli ornamentali in favore dell’approfondimento dell’espressione melodica.
La nascita di Daniel (9 giugno) contribuisce ad allontanare la coppia dalla vita mondana e ad accrescere il loro desiderio di lasciare la capitale per dirigersi verso luoghi più appartati. A metà giugno, infatti partono da Roma per ritornare in Toscana, prima a Lucca indi, come abbiamo visto, in una viletta nella foresta di San Rossore.

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20 – L’ultima lettera di Rossini a Liszt

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L’amicizia fra Rossini e Liszt è una storia bellissima che inizia a Vienna nel 1822, quando nel salotto dell’austero principe Metternich, il fanciullo undicenne viene presentato all’astro dell’opera italiana allora nel pieno del suo fulgore.

Gioachino Rossini a Franz Liszt, Passy, 26 giugno 1865

Veneratissimo Abate, amico mio dilettissimo. A volo di posta riscontro la preziosa vostra del 17 corr.te la quale mi è prova non avere il tempo e la distanza affievolita la vostra affezione pel vegliardo Pesarese. Vi scrivo nella lingua mia natia, essendo questa la più adatta ad emanare ed esprimere dolcemente i sentimenti del cuor mio. Io incominciai ad amarvi ed ammirarvi a Vienna nell’anno 1822 (reminiscenza che mi è si cara!). Gli anni a quell’epoca succeduti non han fatto che accrescere il mio affetto per voi; la determinazione in cui veniste di abbracciare la carriera ecclesiastica non m’ha sorpreso, ma mi ha edificato!! Oh carissimo mio Abate Liszt, lasciate che io vi offra le mie sincere felicitazioni pel santo partito da voi preso, che vi assicura il miglior avvenire possibile.


Gioachino Rossini a Franz Liszt, Passy, 26 giugno 1865

Franz Liszt avrebbe poi scritto a Rossini:

Illustre e caro Maestro. […] sono trascosi più di 40 anni da quando a Vienna, presso il Principe Metternich mi trovai per la prima
volta sul vostro passaggio. Il mondo acclamava in voi con trasporto il moderno Apollo.


Franz Liszt a Rossini, Roma, il 28 giugno 1866
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